Daniela Podda
Mi chiamo Daniela e so che un giorno il Signore mi giudicherà per questo; non ho mai amato il mio nome finché non l’ho sentito pronunciare dalla voce di Paolo, mio marito.
Come Paolo sono anch’io nipote di un falegname ( il nonno materno, Settimo Martini) e di un muratore, quello paterno (Giuseppe); ho iniziato a disegnare prestissimo e tantissimo (vincendo dei piccoli concorsi in età scolare) fino al Liceo Classico; mi è piaciuto tanto questo liceo, anche se mi lasciava poco tempo per il disegno e per questo, forse per compensare questa mancanza liceale, ho scelto con decisione di fare architettura. Ho scelto Firenze, per affinità elettiva; ho sempre amato il Rinascimento Fiorentino; “laggiù”, come “dicano” i miei amici fiorentini , è nata la nostra bella lingua e rinata la nostra bella arte e architettura. Così, ho sciacquato i miei panni in Arno; quelli salati – al contrario del pane altrui dantesco – del mare del mio bel Golfo di Olbia non immaginando fino alla fine che – dopo l’Arno – mi sarebbe toccato anche il Po; anzi – più precisamente – il Mincio, nel punto dove si allarga nei tre laghi che circondano Mantova.
A Firenze, alla sua inarrivabile bellezza devo molto; i miei più cari amici, gli studi, e soprattutto Paolo; ci ha fatti incontrare un’insolita affinità di gusti e di obiettivi; il blocco da disegno in mano e poi insieme a interrogare Brunelleschi a Cappella Pazzi o Santo Spirito, Michelangelo alla Laurenziana, Leon Battista Alberti al palazzo Ruccellai o Santa Maria Novella. E Leon Battista Alberti mi ha portata con Paolo a Mantova; dalla mostra antologica albertiana a Palazzo Te del 1994 fino ai rilievi sopra i tetti del Sant’Andrea.
Qui, a Mantova, Paolo lavorava da sempre nella falegnameria paterna; mobili su misura di alto livello, allestimenti di mostre anche, in quegli anni. Bisognava decidere se prendere o lasciare; una trentina di famiglie del paese e dintorni lavoravano lì. Poi c’era da far partire il nostro studio di architettura e le due cose fin da subito, contro ogni aspettativa, andarono bene insieme.
Iniziammo con delle showroom a Mantova; progettazione degli interni e degli arredi compresa nel prezzo; poi bar, case private, allestimenti, qualsiasi cosa.
Fino alla svolta con la Corneliani; il progetto di un piccolo showroom a Parigi; tutto cooordinato: progetto, produzione ed installazione arredi e gestione cantiere. Poi le prime boutique in Russia ed infine l’incarico per il primo flagship in New Bond Street a Londra e in Monte Napoleone a Milano; è stato un percorso lento e difficile, perché Corneliani ha provato nel frattempo a lavorare anche con altri architetti più blasonati, ma poi si è convinto di fronte ai risultati; se una casa, per dirla con Le Corbusier è una “Machine a habiter”, una boutique è “una macchina per vendere” e le nostre boutique vendevano di più, venivano progettate meglio con una sensibile riduzione dei tempi e dei costi.
Oggi lavoriamo principalmente nel mondo del retail e del residenziale, con qualche incursione nel mondo della nautica di alto livello.
Mi piace il mio lavoro perché si fonda sul dialogo – quasi maieutico – col committente; Leon Battista Alberti ci insegna nel suo De Re Aedificatoria che “l’architetto è la madre dell’edificio ma il committente è il padre”; per questo un bel progetto nasce innanzitutto da un cliente esigente, colto, attento.
Tradurre su un foglio di carta bianco le esigenze architettoniche del cliente e farsi interprete attento di quelle del luogo (Genius Loci) è, per me, il fondamento del progetto di architettura; ma dopo questa fase, il “lineamenta” (il disegno albertiano) o meglio contemporaneamente a questa fase bisogna saper governare la successiva; la costruzione, il cantiere – albertianamente “structura”.
È il momento decisivo; saper “guidare la costruzione” di ciò che si è ‘inventato’ (da invenire), ‘trovato’ nel dantesco “pozzo dell’alta fantasia”.
Non credo che l’architetto sia un creativo, un artista tout court; credo che sia un compositore di figure architettoniche che la sua formazione culturale ha accumulato nella riserva della sua fantasia e che egli – ricomponendole – rinnova, ogni volta.
L’architetto è, per etimologia, un condottiero paziente e valoroso (i suoi valori sono quelli della sua arte) che guida l’esercito delle maestranze alla perfetta costruzione dell’opera.